lunedì 5 gennaio 2015

Grasso di Raymond Carver

In un'intervista del 1987 Carver disse: "E’ difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c'è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione."

Tratto da "Vuoi star zitta, per favore?", il primo racconto della raccolta, buona lettura!



Grasso

Sono a casa della mia amica Rita e, fra un caffè e una sigaretta, le racconto quello che è successo.
Ecco che cosa le racconto.
– È un mercoledì sera un po’ fiacco, sul tardi, quando Herb fa accomodare un signore grasso a un tavolo del mio settore.
Questo signore grasso è la persona più grassa che io abbia mai visto, anche se ha un aspetto curato ed è abbastanza ben vestito. Grosso lo è in tutto. Ma la cosa che ricordo meglio sono le dita. Quando mi fermo al tavolo accanto al suo per servire la coppia anziana, la prima cosa che noto sono le dita. Sembrano tre volte più grandi del normale: lunghe, spesse, dita di panna.
Servo gli altri tavoli: un gruppo di quattro uomini d’affari molto esigenti, un altro tavolo da quattro con tre uomini e una donna, più la coppia anziana. Leander ha già riempito d’acqua il bicchiere del signore grasso e io gli do tutto il tempo per decidere prima di andare da lui.
Buonasera, gli faccio. Ha già scelto?, faccio.
Guarda Rita, ti dico che era grosso, ma grosso sul serio. Buonasera, mi fa lui. Salve. Sì, dice. Penso proprio che siamo pronti a ordinare, mi fa.
È il suo modo di parlare... strano, capisci? E ogni tanto fa una specie di sbuffo, appena appena.
Credo che cominceremo con un’insalata Caesar, mi fa. E poi della zuppa con pane e burro a parte, se non le dispiace. Le costolette d’agnello, direi. E una patata al for-
no con panna acida. Per il dolce, vedremo dopo. Grazie tante, dice, e mi passa il menu.
Dio mio, Rita, dovevi vederle quelle dita.
Corro in cucina e passo l’ordinazione a Rudy che la prende facendo una smorfia. Lo sai com’è fatto Rudy, no? Che ci vuoi fare, quando lavora Rudy è fatto così.
Mentre esco dalla cucina, Margo... te ne ho parlato di Margo, no? Quella che corre dietro a Rudy. Be’, comunque, Margo mi fa: Chi è il tuo amico grassone? È veramente ciccione, eh?

– Ora sta’ a sentire, perché secondo me c’entra. Altroché se c’entra.
Dunque, gli preparo l’insalata Caesar lì al tavolo, con lui che osserva ogni mia mossa e nel frattempo s’imburra le fette di pane e le mette da parte, sempre con quel suo sbuffo. Ad ogni modo, non so se è perché sono così tesa, ma fatto sta che gli rovescio il bicchiere dell’acqua.
Mi dispiace, gli dico. Succede sempre così quando si fanno le cose di fretta. Mi dispiace tanto, gli dico. Si è bagnato? Adesso chiamo il ragazzo e faccio pulire subito tutto.
Non fa niente, dice lui. Tutto a posto, dice, e sbuffa. Non si preoccupi, non ci dà fastidio, mi fa. Poi sorride e mentre vado a chiamare Leander mi fa un cenno con la mano, e quando ritorno per servirgli l’insalata vedo che s’è già mangiato tutto il pane e burro.
Poco dopo, quando gli porto dell’altro pane, ha fatto già fuori l’insalata. E lo sai no quanto sono grandi quelle Caesar.
Lei è molto gentile, mi fa. Questo pane è fantastico, fa. Grazie, dico io.
Be’, è davvero buono, mi fa, diciamo sul serio. Non ci 
capita spesso di gustare pane come questo, fa lui.
Da dove viene?, gli chiedo allora. Non mi sembra di averla vista prima, gli faccio.
– Non è certo il tipo che passa inosservato, – interviene Rita con una risatina.
Denver, fa lui.
Non aggiungo altro su questo, anche se curiosa lo sono. La zuppa arriva tra un attimo, signore, gli faccio, e scap
po a dare gli ultimi ritocchi al gruppo dei quattro uomini d’affari molto esigenti.
Quando gli servo la zuppa, vedo che il pane è sparito di nuovo. Anzi, se ne sta proprio mettendo in bocca l’ultimo pezzetto.
Mi creda, dice. Non mangiamo mica sempre così, dice. E giù uno sbuffo. Ci scuserà, mi fa.
S’immagini, non lo dica nemmeno, faccio io. A me piace vedere una persona che quando mangia se la gode, gli faccio.
Non so, fa lui, dev’essere come dice lei. E giù uno sbuffo. Si sistema meglio il tovagliolo. Poi prende in mano il cucchiaio.
Dio mio, quanto è grasso!, dice Leander.
Non è mica colpa sua, faccio io, perciò piantala.
Gli metto davanti un altro cestino del pane e altro bur
ro. 
Com’era la zuppa?, gli chiedo.
Grazie. Molto buona, fa lui. Davvero buona. Si asciuga le labbra con il tovagliolo e si tampona il mento. Le pare che faccia caldo qui o è una mia impressione?, mi dice.
E io: No, fa proprio caldo.
Allora forse ci toglieremo la giacca, fa lui.
Si accomodi. Uno deve pur stare a suo agio, no?, gli di
co. 
È vero, fa lui, è proprio vero, fa.
Ma dopo un po’ mi accorgo che non se l’è mica tolta,la giacca.
I miei tavoli da quattro se ne sono andati ormai e anche la coppia anziana. Il locale si sta svuotando. Quando gli porto le costolette e la patata al forno, insieme ad altro pane e burro, lui è l’unico cliente rimasto.
Gli metto un mucchio di panna acida sulla patata e poi la cospargo di pancetta ed erba cipollina. Gli porto altro pane e burro.
È tutto di suo gradimento?, gli faccio.
Buonissimo, fa lui, e giù uno sbuffo. Eccellente, grazie, fa lui, e giù un altro sbuffo.
Si gusti la cena, gli dico. Sollevo il coperchio della zuccheriera sul suo tavolo e controllo il livello. Lui annuisce e continua a guardarmi finché non mi allontano.
Allora mi rendo conto che stavo cercando qualcosa. Solo che non so cosa.
Come va con quella palla di lardo? Ti farà correre stasera, vedrai, mi fa Harriet. Sai com’è fatta Harriet, no?
Per dessert, faccio al signore grasso, c’è una specialità della casa, la Lanterna Verde, cioè semifreddo con sciroppo, oppure cheesecake o gelato alla crema o magari sorbetto all’ananas.
Non è che le stiamo facendo fare tardi, eh?, fa lui, sbuffando con aria preoccupata.
Niente affatto, dico io. Certo che no. Se la prenda comoda, gli faccio. Intanto che decide le porto altro caffè.
Be’, saremo franchi con lei, fa lui. E si sposta un po’ sulla sedia. Ci piacerebbe assaggiare la specialità, ma vorremmo anche una porzione di gelato alla crema. Con una goccia di cioccolato fuso, se non è di disturbo. L’avevamo avvertita che avevamo un certo appetito, mi fa.
Vado in cucina a preparargli personalmente il dessert e Rudy mi fa: Harriet dice che là fuori hai una specie di uomo cannone del circo. È vero?
Rudy s’è già tolto grembiule e cappello, se capisci cosa voglio dire.
Senti, Rudy, per essere grasso è grasso, gli faccio, ma non è mica tutto lì.
Rudy si limita a farsi una risatina.
Mi pare di capire che questa qui ha un debole per gli uomini un po’ in carne, dice poi.
Ehi, Rudy, sta’ attento, fa Joanne, che entra in cucina proprio in quel momento.
È che mi sta facendo ingelosire, fa Rudy, rivolto a Joanne.
Metto la specialità della casa davanti al signore grasso e, a fianco, una porzione abbondante di gelato alla crema con il cioccolato fuso.
Grazie, fa lui.
Non c’è di che, faccio io, ed è lì che provo come un senso di tenerezza.
Ci creda o no, fa lui, non abbiamo mica mangiato sempre così. Io, invece, mangio mangio e non aumento mai di peso, faccio io. Eppure mi piacerebbe mettere su qualche chilo.
No, fa lui. Se dipendesse da noi, a noi no. Ma non c’è scelta.
Quindi prende il cucchiaio e comincia a mangiare.
– E poi? – fa Rita, mentre si accende una delle mie sigarette e si avvicina con la sedia al tavolo. – Questa storia si sta facendo davvero interessante, – fa Rita.
– Tutto qui. Non c’è altro. S’è mangiato i suoi dessert e se n’è andato. E allora io e Rudy siamo tornati a casa. Che ciccione!, dice Rudy, stirandosi come fa di solito quando è stanco. Poi si fa una risatina e se ne torna a guardare la televisione.
Metto a bollire l’acqua per il tè e mi faccio una doccia.
Mi passo una mano sulla pancia e mi chiedo che succederebbe se avessi dei figli e uno di loro finisse per essere come quello, grasso così.
Verso l’acqua nella teiera, sistemo le tazze, la zuccheriera, il cartone di panna e latte intero e porto il vassoio di là da Rudy. Come se ci stesse ancora pensando, Rudy mi fa: Una volta conoscevo un tizio grasso, anzi due, due tizi, ma grassi sul serio, quando ero piccolo. Dio mio, se erano grossi, due palloni. Non mi ricordo neanche come si chiamavano. Ciccio era l’unico nome che aveva uno di quei ragazzini. Lo chiamavamo tutti Ciccio, quello che abitava vicino a me. Era del quartiere. L’altro è arrivato più tardi. Si chiamava Bombolo. Cioè, lo chiamavano tutti Bombolo, tranne i professori a scuola. Ciccio e Bombolo. Quanto vorrei avere le loro foto, fa Rudy.
Non mi viene niente da dire, perciò ci beviamo il tè e dopo un po’ mi alzo per andare a letto. Anche Rudy si alza, spegne la televisione, chiude a chiave la porta d’ingresso e si comincia a sbottonare. M’infilo a letto e mi tiro tutta dalla mia parte, sdraiata sulla pancia. Ma appena spegne la luce e si mette a letto, ecco che Rudy comincia a darsi da fare. Mi volto sulla schiena e cerco di rilassarmi un po’, anche se non ne ho proprio voglia. Ma ecco il punto. Quando mi monta sopra, all’improvviso mi sento grassa. Sono tremendamente grassa, grassa al punto che Rudy diventa minuscolo e quasi non c’è più.
– Be’, è proprio una storia buffa, – mi fa Rita, ma mi rendo conto che non l’ha capita.
La cosa mi deprime un po’. Ma non mi va di spiegargliela. Le ho già detto troppo.
Lei rimane lì seduta, in attesa, si aggiusta i capelli con le dita tutte laccate.
Ma che aspetta? Mi piacerebbe saperlo. Siamo ad agosto.
La mia vita cambierà presto. Lo sento. 

giovedì 18 dicembre 2014

Buon natale con Cattedrale, un racconto di Raymond Carver.

Raymond Clevie Carver Jr. (Clatskanie25 maggio 1938 – Port Angeles2 agosto 1988) è stato uno scrittore,poeta e saggista statunitense.


Illustrazione: 'Cathedral' - Anne Manteleers - graphic designer  

CATTEDRALE (Raymond Carver)


C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva arrivare per passare la notte da noi. Gli era appena morta la moglie. E così era andato a trovare i parenti di lei in Connecticut. Aveva chiamato mia moglie da casa loro. Avevano preso accordi. Sarebbe arrivato in treno, un viaggio di cinque ore, e mia moglie sarebbe andata a prenderlo alla stazione. Non l’aveva più visto da quando aveva lavorato per lui un’estate a Seattle, dieci anni prima.
Comunque, lei e il cieco si erano tenuti in contatto. Registravano dei nastri e se li spedivano per posta avanti e indietro. Non è che fossi entusiasta di questa visita. Era un tizio che non conoscevo affatto. E il fatto che fosse cieco mi dava un po’ di fastidio. L’idea che avevo della cecità me l’ero fatta al cinema. Nei film i ciechi si muovono lentamente e non ridono mai. Avolte sono accompagnati dai cani-guida. Insomma, avere un cieco per casa non è che fosse proprio il primo dei miei pensieri.
Quell’estate a Seattle lei aveva bisogno di un lavoro. Non aveva un soldo. L’uomo che avrebbe sposato alla fine dell’anno frequentava un corso per ufficiali. Non aveva un soldo neanche lui. Ma lei era innamorata di questo tizio e lui era innamorato di lei, eccetera eccetera. Insomma, lei aveva visto un annuncio sul giornale – CERCASI LETTORE PER CIECO – e un numero di telefono. Aveva chiamato, era andata per un colloquio ed era stata assunta su due piedi. Per tutta l’estate aveva lavorato con questo cieco. Gli leggeva della roba, relazioni, rapporti, cose del genere. Lo aiutava a mandare avanti il suo ufficetto nel dipartimento assistenza sociale della contea.


   Erano diventati buoni amici, mia moglie e il cieco. Come faccio a sapere queste cose? Me le ha dette lei. E mi ha anche detto un’altra cosa. L’ultimo giorno di lavoro, il cieco le aveva chiesto se poteva toccarle il viso. Lei gli aveva detto di sì. Mi ha raccontato che lui l’aveva sfiorata con le dita dappertutto: il viso, il naso… perfino il collo! Lei non se l’era più scordato. Aveva addirittura cercato di scriverci su una poesia. Era sempre lì a cercare di scrivere una poesia, lei. Ne scriveva una o due all’anno, di solito subito dopo che le era successo qualcosa di molto importante.
  Quando abbiamo cominciato a uscire insieme, me l’ha fatta leggere, quella poesia. Rievocava le dita di lui e il modo in cui s’erano mosse sul suo viso. Nella poesia, parlava delle sensazioni che aveva provato all’epoca, di quello che le passava per la testa mentre il cieco le toccava il naso e le labbra. Ricordo che non è che mi piacesse molto, quella poesia. Naturalmente, non glielo dissi mica.
   Sarà che io la poesia non la capisco proprio. Devo ammettere che non è la prima cosa che prendo quando ho voglia di leggere un po’. Ad ogni modo, il tizio che per primo aveva goduto dei suoi favori, il futuro ufficiale, era stato il suo fidanzatino di sempre. Perciò, va bene. Quel che voglio dire è che, alla fine dell’estate in cui aveva lasciato che il cieco le toccasse il viso, gli ha detto addio, ha sposato il suo fidanzatino eccetera, che intanto era diventato ufficiale, e se ne è andata da Seattle. Però si erano mantenuti in contatto, il cieco e lei.


    L’aveva cercato lei per prima, più o meno un anno dopo. L’aveva chiamato una sera da una base dell’aeronautica in Alabama. Aveva voglia di parlare. Parlarono. Lui le chiese di mandargli un nastro e di raccontargli cosa faceva. Lei lo fece. Gli mandò il nastro. Nel nastro gli raccontava del marito e della loro vita insieme nell’ambiente militare. Gli disse che amava suo marito, ma che non le piaceva per niente dove vivevano e il fatto che lui facesse parte del coso, del complesso militare-industriale. Disse al cieco che aveva scritto una poesia e che c’era dentro anche lui. Gli disse pure che ne stava scrivendo un’altra per raccontare che cosa voleva dire essere la moglie di un ufficiale dell’aeronautica.
   Quella poesia non l’aveva ancora finita. La stava ancora scrivendo. Il cieco registrò un nastro di risposta. Glielo mandò. Lei a sua volta ne registrò un altro. Ed è andata avanti così per anni. L’ufficiale di mia moglie veniva trasferito da una base all’altra. Lei mandò al cieco nastri dalla base Moody, da McGuire, McConnell e infine da Travis, vicino Sacramento, dove una sera lei s’era sentita sola e tagliata fuori dalla gente che continuava a lasciarsi dietro in quella vita vagabonda.


   Era arrivata al punto che le pareva di non riuscire più ad andare avanti. Allora aveva inghiottito tutte le pasticche e capsule che aveva trovato nell’armadietto delle medicine e le aveva annaffiate con una bottiglia di gin. Poi s’era infilata in un bagno caldo e lì era svenuta. Ma invece di morire si è sentita male. Ha vomitato tutto. Il suo ufficialetto – perché dovrebbe avere un nome? è stato il suo fidanzatino da sempre, che altro vuole? – è tornato a casa da non so dove, l’ha trovata e ha chiamato un’ambulanza. Con il tempo, ha raccontato tutta la storia su nastro e l’ha spedita al cieco.
   Con il passare degli anni, ha registrato un sacco di cose e spediva nastri a tutta birra. Oltre a scrivere una poesia all’anno, credo fosse il suo principale mezzo di svago. In uno dei nastri, aveva detto al cieco che aveva deciso di vivere lontano dal suo ufficiale per un certo periodo. In un altro, gli aveva detto del divorzio. Poi io e lei abbiamo cominciato a uscire insieme e, naturalmente, lei ne aveva parlato al cieco. Insomma, gli raccontava tutto, o per lo meno così mi pareva. Una volta mi ha perfino chiesto se volevo ascoltare l’ultimo nastro che le aveva mandato il cieco. È stato un anno fa. Ha detto che c’ero anch’io, sul nastro. E così le ho detto va bene, sentiamo. Ho preparato da bere e ci siamo accomodati in soggiorno.
   Eravamo pronti ad ascoltarlo. Prima di tutto lei ha messo il nastro nel registratore e ha regolato un paio di manopole. Poi ha spinto un pulsante. Il nastro ha fischiato un po’ e poi qualcuno ha cominciato a parlare a voce molto alta. Lei ha abbassato il volume. Dopo qualche secondo di chiacchiere, ho sentito il mio nome sulla bocca di questo estraneo, un cieco che non conoscevo neanche! E poi ha detto: “Da tutto quello che mi hai detto di lui, posso solo concludere…”
   Ma a quel punto siamo stati interrotti. Hanno bussato alla porta o qualcosa del genere e poi non siamo mai più tornati ad ascoltarlo, quel nastro. Magari è stato meglio così. Avevo già sentito tutto quello che volevo sentire. E adesso questo stesso cieco veniva a dormire a casa mia. “Magari lo posso portare al bowling”, ho detto a mia moglie. Era al lavello che pelava le patate per lo sformato. Ha messo giù il coltello e si è girata verso di me.
   “Senti, se mi vuoi bene”, ha detto, “mi puoi fare questo favore. Se non mi vuoi bene, pazienza. Ma se tu avessi un amico, qualsiasi amico, e il tuo amico venisse a casa nostra, mi sforzerei di farlosentire a suo agio”. Si è asciugata le mani su uno strofinaccio. “Io non ho nessun amico cieco”, le ho detto. “Tu non hai nessun amico”, ha detto lei. “Punto. E poi”, ha aggiunto, “accidenti, gli è appena morta la moglie! Possibile che non capisci? Quel poveraccio ha appena perso la moglie!”
   Non le ho neanche risposto. E così lei si è messa a raccontarmi un po’ della moglie del cieco. Si chiamava Beulah. Beulah! È un nome da donna di colore. “Allora la moglie era negra?”, le ho chiesto. “Ma sei matto?”, ha detto mia moglie. “Ti ha dato di volta il cervello o che?” Ha preso su un’altra patata. L’ho vista cadere per terra e rotolare sotto il fornello. “Si può sapere che ti piglia?”, ha detto lei. “Sei ubriaco?” “Stavo solo chiedendo”, ho detto io. E allora mia moglie si è messa a raccontarmi tutto fornendo più particolari di quanti ne avessi bisogno.


   Mi sono preparato da bere e mi sono seduto ad ascoltarla. Pezzo dopo pezzo, la storia cominciava a filare.
A quanto pare Beulah si era messa a lavorare per il cieco l’estate dopo che mia moglie aveva smesso di lavorare per lui. Ben presto Beulah e il cieco si sono ritrovati all’altare. Una piccola cerimonia – ma chi ci andrebbe a un matrimonio del genere? – solo loro due, il pastore e la moglie del pastore. Però si sono sposati in chiesa lo stesso.


   Era stato un desiderio di Beulah, aveva detto lui. Ma già all’epoca Beulah doveva portarsi dentro il cancro alle ghiandole. Dopo essere stati inseparabili per otto anni – proprio così, ha detto mia moglie, inseparabili – la salute di Beulah era cominciata rapidamente a peggiorare. Era morta in una stanza d’ospedale a Seattle, con il cieco seduto al suo capezzale che le teneva la mano.
   Si erano sposati, avevano vissuto e lavorato insieme, dormito insieme – e pure scopato, certo – e poi il cieco l’ha dovuta seppellire. Tutto questo senza che lui potesse mai vedere nemmeno che faccia aveva quell’accidenti di donna. Proprio non ci arrivavo a capire una cosa del genere. A sentire questa storia, mi è dispiaciuto un po’per il cieco, devo dire. E poi mi sono ritrovato a riflettere sulla vita disgraziata che quella poveraccia doveva aver avuto.
   Immaginate un po’ una donna che non può mai riconoscersi negli occhi dell’uomo che ama. Una donna che deve vivere giorno dopo giorno senza mai ricevere il benché minimo complimento dal suo amato. Una donna il cui marito non sarebbe mai riuscito a leggere un’espressione sul suo volto, fosse di sofferenza o di gioia. Una che poteva truccarsi oppure no – tanto che differenza faceva per lui? Se voleva, poteva mettersi l’ombretto verde solo su un occhio, infilarsi uno spillone nel naso, indossare pantaloni gialli e scarpe viola, tanto non importava.
   E poi scivolare verso la morte, con il cieco che le teneva la mano, con gli occhi opachi pieni di lacrime – me lo sto immaginando – magari il suo ultimo pensiero era stato proprio questo: che lui non aveva mai saputo neanche che aspetto avesse e ormai lei era su un treno che la stava portando dritta alla tomba.
   A Robert erano rimasti solo i soldi di una modesta assicurazione e mezza moneta da venti pesos messicani. L’altra metà era finita nella bara insieme a lei. Che storia patetica! Insomma, quando è arrivato il momento, mia moglie è andata a prenderlo giù alla stazione. Rimasto lì senza niente da fare – certo, davo la colpa a lui anche di quello – mi stavo bevendo un goccetto davanti alla televisione quando ho sentito la macchina imboccare il vialetto. Mi sono alzato dal divano e con il bicchiere ancora in mano sono andato alla finestra a guardare fuori.
   Ho visto mia moglie ridere mentre parcheggiava. L’ho vista scendere dalla macchina e chiudere lo sportello. Sorrideva ancora.Incredibile. Ha girato intorno al cofano per andare dall’altra parte dove il cieco stava già uscendo dalla macchina. Il cieco, immaginate un po’, aveva un gran barbone! Un cieco con la barba! Un po’eccessivo, secondo me.


   Il cieco ha allungato la mano sul sedile di dietro e ha tirato fuori una valigia. Mia moglie l’ha preso per un braccio, ha chiuso lo sportello e, senza smettere un attimo di chiacchierare, l’ha guidato lungo il vialetto e poi su per i gradini della veranda. Ho spento la televisione. Mi sono scolato il mio bicchiere, l’ho sciacquato e mi sono asciugato le mani. Poi sono andato alla porta.
   Mia moglie ha detto: “Ti voglio presentare Robert. Robert, lui è mio marito. Sai già tutto di lui”. Era raggiante. Teneva il cieco per la manica della giacca. Il cieco ha mollato la valigia e mi ha porto la mano.
Gliel’ho presa. Me l’ha stretta forte e a lungo, e poi l’ha lasciata andare. “Ho come la sensazione di conoscerti già”, ha detto con voce roboante.
   “Anch’io”, ho detto. Non sapevo che altro dire. Poi ho aggiunto: “Benvenuto. Ho sentito molto parlare di te”. Ci siamo spostati, tutti insieme, dalla veranda al soggiorno, con mia moglie che lo guidava per il braccio. Il cieco portava la valigia con l’altra mano. Mia moglie diceva cose tipo: “Qui a sinistra, Robert. Sì, così. Adesso attento, c’è una sedia. Ecco. Siediti qua. È il divano. L’abbiamo appena comprato due settimane fa”.
  


   Stavo per cominciare a dire qualcosa a proposito del vecchio divano. C’ero affezionato, a quel vecchio divano. Ma non ho detto niente. Poi volevo dirgli qualcos’altro, così, tanto per fare due chiacchiere, sul panorama che si vede risalendo la valle dell’Hudson. Sul fatto che andando a New York, bisognerebbe sedersi sul lato destro del treno, mentre venendo da New York, sul sinistro. “Hai fatto buon viaggio?”, gli ho chiesto. “A proposito, da quale lato del treno eri seduto?”, “Che razza di domanda? Su quale lato!”, è intervenuta mia moglie. “Che importa su quale lato ci si siede?”, “Stavo solo chiedendo”, ho detto. “Sul destro”, ha risposto il cieco. “Erano quasi quarant’anni che non salivo più su un treno. Da quando ero piccolo. Con i miei. Ne è passato di tempo. Avevo quasi dimenticato che cosa si prova. Ormai l’inverno è arrivato anche sulla mia barba”, ha detto. “Perlomeno, così mi dicono. Ti pare che abbia un aspetto distinto, mia cara?”, ha chiesto il cieco a mia moglie.
   “Hai un aspetto molto distinto, Robert”, ha detto lei. “Robert”, ha ripetuto. “Robert, sono proprio contenta di rivederti”. Finalmente mia moglie è riuscita a staccare gli occhi di dosso al cieco, e mi ha guardato. Ho avuto l’impressione che non le piacesse quello che vedeva. Ho alzato le spalle. Non avevo mai incontrato o conosciuto personalmente una persona cieca. Questo cieco aveva quasi cinquant’anni ed era un uomo massiccio, un po’ stempiato, con le spalle curve, come se portasse un grande fardello. Indossava pantaloni marroni, scarpe marroni, una camicia marroncina, la cravatta e una giacca sportiva.
   Molto chic. E poi aveva questo barbone. Però non aveva né il bastone né gli occhiali scuri. Ero convinto che gli occhiali scuri fossero obbligatori per i ciechi. Il fatto è che mi sarebbe piaciuto che li portasse. A prima vista, i suoi occhi sembravano normali. Ma se si faceva più attenzione, avevano qualcosa di diverso. Tanto per cominciare c’era troppo bianco intorno all’iride, e poi le pupille sembravano muoversi nelle orbite senza che lui se ne rendesse conto o fosse in grado di fermarle. Faceva venire la pelle d’oca. Mentre lo guardavo fisso in faccia, ho visto la pupilla sinistra girarsi verso il naso, mentre l’altra faceva lo sforzo di rimanere ferma in un posto.


    Ma era solo uno sforzo, perché anche quell’occhio s’è messo a vagare senza che lui lo sapesse, o che volesse farlo. Gli ho detto: “Ti prendo da bere. Cosa ti va? Abbiamo un po’di tutto. È uno dei nostri passatempi preferiti”. “Fratello, io sono un tifoso dello scotch”, ha risposto subito con quel suo vocione. “Ottimo”, ho detto io. Fratello! “Si vede subito. Ci avrei scommesso”. Con le dita sfiorò la valigia che aveva messo accanto al divano.
   Stava cercando di orientarsi. Non gliene facevo certo una colpa. “Te la porto di sopra, in camera tua”, gli ha detto mia moglie. “No, va bene”, ha detto il cieco sempre a voce alta. “Può andare di sopra quando ci vado io”. “Un po’ d’acqua nello scotch?”, gli ho chiesto. “Giusto una goccia”, ha risposto lui. “Ci avrei scommesso”, ho detto io.
   Ha aggiunto: “Appena uno schizzo. Hai presente quell’attoreirlandese, Barry Fitzgerald? Be’, la penso come lui. Quando bevo acqua, diceva Fitzgerald, bevo acqua. Quando bevo whisky, bevo whisky”. Mia moglie si è messa a ridere. Il cieco si è portato una mano sotto la barba. L’ha sollevata e poi l’ha fatta ricadere. Ho preparato da bere, tre bei bicchieroni di scotch con appena uno schizzo d’acqua dentro. Poi ci siamo messi comodi e abbiamo cominciato a parlare dei viaggi di Robert. Prima il lungo volo dalla costa occidentale al Connecticut, la cronaca completa.


   Poi il viaggio fin qui con il treno. Quella tappa ha richiesto un altro bicchiere. Ricordavo di aver letto da qualche parte che i ciechi non fumano perché, secondo quella teoria, non vedono il fumo che esalano. Sapevo questa cosa sui ciechi e, anzi, era l’unica cosa che sapevo di loro. Ma questo cieco qui fumava le sigarette fino al filtro e poi se ne accendeva subito un’altra. Insomma, lui lì a riempire il posacenere e mia moglie a svuotarlo.
   Quando ci siamo seduti a tavola per cena, ci siamo fatti il terzo bicchiere. Mia moglie ha riempito il piatto di Robert con filetto, sformato di patate e fagiolini. Io gli ho imburrato due fette di pane e gli ho detto: “Ecco qua un po’ di pane e burro”. Ho mandato giù un sorso dal mio bicchiere. “E adesso preghiamo”, ho detto poi, e il cieco ha subito abbassato la testa. Mia moglie mi ha guardato a bocca aperta. “Preghiamo che il telefono non squilli e che il cibo non si freddi”, ho detto.
   Ci abbiamo dato dentro. Abbiamo mangiato tutto il mangiabile finché non è rimasto più niente in tavola. Abbiamo mangiato come se il sole non dovesse più sorgere. Senza dire una parola. Abbiamo mangiato e basta. Anzi, ci siamo abbuffati. Abbiamo spolverato la tavola. Una mangiata seria. Il cieco ha localizzato subito le pietanze, sapeva benissimo dov’era ogni cosa che aveva nel piatto. L’osservavo ammirato tagliare la carne con il coltello tenendola ferma con la forchetta. Tagliava due pezzetti di carne, se li infilava in bocca e poi andava a caccia delle patate, poi dei fagiolini, quindi staccava un pezzetto di pane imburrato e mangiava pure quello.


   Alla fine, si beveva un bel sorso di latte. E non si faceva particolari problemi a usare le dita, di tanto in tanto. Abbiamo finito tutto, compresa mezza torta alle fragole. Per qualche secondo siamo rimasti lì, come fulminati. Avevamo la faccia imperlata di sudore. Alla fine ci siamo alzati lasciando i piatti sporchi sul tavolo. Non ci siamo neanche girati a guardarli. Ci siamo trasferiti in soggiorno e siamo sprofondati nei nostri posti.
Robert e mia moglie sedevano sul divano e io nella poltrona grande. Ci siamo fatti altri due o tre bicchieri di scotch mentre loro parlavano delle cose principali che gli erano capitate negli ultimi dieci anni.


   Per lo più, io stavo solo a sentire. Ogni tanto dicevo qualcosa. Non volevo che lui pensasse che ero uscito dalla stanza o che lei credesse che mi sentissi tagliato fuori. Parlavano di cose che erano successe a loro – a loro! – negli ultimi dieci anni. Ho aspettato invano di sentire il mio nome pronunciato dalle dolci labbra di mia moglie: “E poi è entrato in scena il mio caro maritino…”, qualcosa del genere. Ma niente da fare.
   Si è parlato sempre di Robert. Aquanto pare, Robert aveva fatto di tutto un po’, un vero e proprio tuttofare cieco. Ma negli ultimi tempi lui e la moglie si erano messi a distribuire prodotti della Amway e, da quello che ho capito, riuscivano a ricavare di che vivere, bene o male. Il cieco era anche un provetto radioamatore. Con il suo vocione ci ha raccontato delle conversazioni che aveva avuto con i colleghi radioamatori a Guam, nelle Filippine, in Alaska e perfino a Tahiti.
   Diceva che avrebbe avuto un sacco di amici in quei posti, se mai fosse riuscito a visitarli. Di tanto in tanto, voltava lo sguardo cieco verso di me; si metteva la mano sotto la barba e mi chiedeva qualcosa. Da quanto tempo lavoravo nell’attuale impiego? (Tre anni.) Mi piaceva il mio lavoro? (Neanche un po’.) Avrei continuato a farlo? (Che scelta avevo?) Alla fine, quando mi pareva che gli si stessero per esaurire le batterie, mi sono alzato e ho acceso la tv.
   Mia moglie mi ha dato un’occhiataccia irritata. Stava per entrare in ebollizione. Poi ha guardato il cieco e gli ha chiesto: “Di’ un po’, Robert, ma tu ce l’hai il televisore?” Il cieco le ha risposto: “Mia cara, ne ho due di televisori. Uno a colori e un pezzo d’antiquariato in bianco e nero. È buffo, ma se l’accendo, e l’accendo spesso, accendo sempre quello a colori. Non ti sembra buffo?”
   Non sapevo che dire in proposito. Assolutamente niente. Nessuna opinione. E così mi sono messo a guardare il telegiornale e ho provato ad ascoltare quello che diceva l’annunciatore. “Questo televisore qui è a colori”, ha detto il cieco. “Non chiedetemi come faccio a saperlo, ma riesco a capire la differenza”. “Sì, l’abbiamo cambiato da poco”, ho detto io. Il cieco ha preso un altro sorso del suo scotch. Ha tirato su la barba, l’ha annusata e poi l’ha lasciata ricadere.


   Si è chinato in avanti sul divano. Si è sistemato il posacenere davanti sul tavolinetto, poi s’è acceso la sigaretta. Si è riappoggiato allo schienale e ha incrociato le caviglie. Mia moglie si è coperta la bocca e ha sbadigliato. Si è stirata un po’. Ha detto: “Mi sa che vado di sopra a mettermi in vestaglia. Mi sa che mi cambio adesso. Robert, tu mettiti pure a tuo agio”. “Sono a mio agio”, ha detto il cieco.
   “Voglio che ti senti a tuo agio in questa casa”, ha detto lei. “Sono a mio agio”, ha ripetuto il cieco. Dopo che lei è uscita, io e lui abbiamo sentito le previsioni del tempo e poi il riepilogo delle notizie sportive. A quel punto se n’era andata da tanto di quel tempo che non ero mica sicuro che sarebbe tornata. Ho pensato che se ne fosse andata a letto, ormai.


   Volevo tanto che riscendesse. Non volevo essere lasciato da solo con il cieco. Gli ho chiesto se voleva un altro goccio e lui ha detto come no? Poi gli ho chiesto se voleva farsi uno spinello insieme a me. L’ho informato che ne avevo appena rollato uno. Non era vero, ma avevo in mente di farlo in men che non si dica.
“Lo provo insieme a te”, ha detto lui. “Giusto, accidenti!”, ho esclamato io. “Così si fa”.
   Ho preparato lo scotch e mi sono seduto sul divano accanto a lui. Poi ho rollato due bei cannoni. Ne ho acceso uno e gliel’ho passato, mettendoglielo tra le dita. Lui l’ha preso e ha aspirato. “Tienilo dentro finché puoi”, gli ho detto. Avevo capito che non se ne intendeva per niente. Mia moglie è tornata di sotto con la sua vestaglia rosa e le pantofole rosa.
   “Che cos’è questo odore?”, ha detto. “Abbiamo pensato di farci un po’ di marijuana”, le ho detto. Mia moglie mi ha lanciato un’occhiata furibonda. Poi ha guardato il cieco e gli ha detto: “Robert, non sapevo che fumassi”. Lui le ha risposto: “Be’, adesso lo sto facendo, mia cara. C’è una prima volta per tutto. Ma ancora non sento niente”. “È roba piuttosto leggera”, ho detto io. “Roba tenera. Erba con cui si ragiona”, ho aggiunto. “Non è che ti sconvolge troppo”. “No, non troppo, davvero, fratello”, ha detto e si è messo a ridere.
   Mia moglie si è seduta sul divano tra me e il cieco. Le ho passato lo spinello. Lei lo ha preso e gli ha dato una tirata, poi me l’ha ripassato. “Da che parte gira?”, ha chiesto. Poi ha detto: “Non dovrei fumarlo. Già non riesco a tenere gli occhi aperti. Quella cena mi ha steso. Non avrei dovuto mangiare tanto”. “Tutta colpa della torta alle fragole”, ha detto il cieco. “È stata senz’altro quella”. È scoppiato in una delle sue risate sonore. Poi ha scosso la testa.
   “Ce n’è ancora di torta alle fragole”, ho detto io. “Ne vuoi ancora un po’, Robert?”, gli ha chiesto mia moglie. “Magari più tardi”, ha risposto lui. Abbiamo rivolto la nostra attenzione alla tv. Mia moglie ha sbadigliato di nuovo. Poi ha detto: “Il letto è pronto, quando vuoi andare a letto, Robert. So che devi aver avuto una giornata faticosa. Appena sei pronto per andare a letto, non hai che da dirlo”. Gli ha dato un strattone. “Robert?” Lui si è riscosso e ha detto: “Mi sono divertito un sacco, davvero. Altro che nastri, eh?”
   Gli ho detto: “È in arrivo”, e gli ho infilato lo spinello tra le dita. Lui ha inalato, ha trattenuto il fumo e poi l’ha lasciato andare. Adesso era come se l’avesse sempre fatto da quando aveva nove anni. “Grazie, fratello”, ha detto. “Ma mi sa che adesso mi fermo. Mi sa che comincio a sentirlo”. Ha passato il mozzicone fumante a mia moglie. “Idem come sopra”, ha detto lei. “Mi fermo anch’io”. Ha preso il mozzicone e me l’ha passato. “Magari me ne sto seduta un altro po’ qui tra voi, ragazzi, e chiudo gli occhi. Ma fate come se io non ci fossi, d’accordo? Se dà fastidio a uno di voi, basta che me lo dite. Altrimenti, magari me ne sto seduta qui buona buona con gli occhi chiusi finché non siete pronti per andare a letto. Il tuo letto è pronto, Robert, appena sei pronto. È proprio accanto alla nostra camera, in cima alle scale. Appena sei pronto, ti accompagniamo di sopra. Sentite, ragazzi, se mi dovessi addormentare, svegliatemi”.
  


   Appena detto così, ha chiuso gli occhi e si è addormentata. Alla fine del telegiornale, mi sono alzato e ho cambiato canale. Poi mi sono riseduto sul divano. Avrei voluto che mia moglie non fosse crollata in quel modo. Aveva la testa appoggiata allo schienale del divano ed era rimasta a bocca aperta. Si era girata in modo che la vestaglia le era scivolata sulle gambe, lasciando scoperta una coscia succulenta. Ho allungato un braccio per richiudergliela ed è stato a quel punto che ho dato un’occhiata al cieco. Al diavolo! Con un colpetto, le ho riaperto la vestaglia.
   “Appena ti va ancora un po’ di torta alle fragole, non hai che da dirmelo”, gli ho detto. “Certo”. Poi gli ho chiesto: “Sei stanco? Vuoi che ti porti di sopra, a letto? Sei pronto per metterti a nanna?” “Ancora no”, ha risposto. “No, starò alzato con te ancora un po’, fratello. Se non ti dispiace. Starò su finché non sei pronto per ritirarti. Non abbiamo avuto la possibilità di fare due chiacchiere. Capisci che cosa voglio dire? Mi è parso che io e lei abbiamo un po’ monopolizzato la serata”. Ha sollevato di nuovo la barba e l’ha lasciata ricadere. Ha raccolto il pacchetto di sigarette e l’accendino.
   “Non ti preoccupare”, l’ho rassicurato. Poi ho detto: “Anzi, mi fa piacere un po’ di compagnia”. E mi sa che era vero. Tutte le sere mi fumavo uno spinello e rimanevo alzato finché non cadevo dal sonno. Io e mia moglie ormai raramente ce ne andavamo a letto alla stessa ora. Quando poi mi addormentavo, facevo un sacco di sogni. A volte mi svegliavo nel bel mezzo di uno di questi sogni, con il cuore che correva all’impazzata.
   In tv c’era un documentario sulla chiesa e il medioevo. Non era certo il solito programma televisivo. Volevo guardare qualcos’altro. Ho fatto un giro dei canali. Ma anche sugli altri non c’era niente d’interessante. Così ho rimesso sul primo canale e mi sono scusato con lui. “Non c’è problema, fratello”, ha detto il cieco. “Per me va bene qualsiasi cosa. Quello che vuoi vedere tu, a me sta bene. Imparo sempre qualcosa. Non si finisce mai d’imparare. Non mi farà certo male imparare qualcosa anche stasera. Le orecchie mi funzionano”, ha detto.


   Se n’è stato zitto per un po’. Era curvo in avanti, con la testa rivolta a me e l’orecchio destro puntato verso l’apparecchio. Un po’ sconcertante. Di tanto in tanto le palpebre gli calavano sugli occhi, ma poi si riaprivano di scatto. Di tanto in tanto s’infilava le dita nella barba e gli dava una tiratina, come se stesse riflettendo su qualcosa di quello che sentiva alla televisione. Sullo schermo, un gruppo di uomini incappucciati era attaccato e tormentato da altri vestiti da scheletri o in costume da diavolo. I diavoli portavano maschere diaboliche, corna e lunghe code. Questa scena faceva parte di una processione. Il commentatore aveva un accento inglese e diceva che la processione si svolgeva in Spagna una volta all’anno.
   Ho cercato di spiegare al cieco quello che succedeva. “Scheletri”, ha detto lui. “Lo so che cosa sono gli scheletri”, ha detto, annuendo. La tv ha fatto vedere questa cattedrale. Poi c’è stata una lunga, lenta carrellata su un’altra cattedrale. Alla fine sul video è apparsa quella famosissima di Parigi, con gli archi rampanti e le guglie che puntano alle nuvole. La telecamera è arretrata per mostrare l’intera cattedrale che si stagliava all’orizzonte.
   In certi momenti il commentatore inglese restava in silenzio e si limitava a lasciare che la telecamera inquadrasse varie parti della cattedrale. Oppure l’obiettivo vagava per paesaggi rurali, con uomini nei campi che camminavano dietro ai buoi. Finché ho potuto, sono rimasto in silenzio anch’io. Poi mi sono sentito in dovere di parlare. Ho detto: “Adesso stanno facendo vedere l’esterno di una cattedrale. I grondoni, statuette scolpite a forma di mostri. Adesso mi sa che stanno in Italia. Sì, stanno proprio in Italia. Le pareti di questa chiesa sono tutte dipinte”.
   “Per caso sono affreschi, fratello?”, ha chiesto lui, sorseggiando dal suo bicchiere. Ho allungato la mano per prendere il mio. Ma era vuoto. Ho cercato di ricordarmi tutto quello che potevo ricordare. “Mi stai chiedendo se sono affreschi?”, ho detto. “Bella domanda. Non lo so mica”. Le riprese sono passate a mostrare una cattedrale fuori Lisbona. Le differenze tra la cattedrale portoghese rispetto a quelle francesi o italiane non erano poi così marcate. Eppure c’erano. Riguardavano per lo più gli arredi interni. Poi m’è venuta in mente una cosa e ho detto: “M’è appena venuta in mente una cosa. Ma tu ce l’hai un’idea di che cos’è una cattedrale? Cioè, di che aspetto hanno? Capisci? Se qualcuno ti dice ‘cattedrale’, hai un’idea di che cosa sta parlando? Per esempio, la sai la differenza che passa tra quella e una chiesa battista?”
  


   Lui ha lasciato uscire pian piano del fumo dalla bocca. “So che ci sono voluti centinaia di uomini e cinquanta o cento anni per costruirle”, ha detto. “L’ho appena sentito dire da quel tizio, naturalmente. So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo. Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle, non hanno mai visto l’opera finita. Da quel punto di vista, fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?”
   Si è messo a ridere. Poi le palpebre gli sono calate giù di nuovo. Ha tentennato un po’ la testa. Pareva sonnecchiare. Magari stava immaginando di essere in Portogallo. In tv adesso stavano facendo vedere un’altra cattedrale. In Germania, questa volta. La voce dell’inglese continuava a commentare, monotona.   
   “Cattedrali”, ha detto il cieco. Si è tirato su a sedere e ha cominciato a dondolare la testa da una parte all’altra. “Se vuoi sapere la verità, fratello, questo è su per giù tutto quel che so. Quello che ho appena detto.  Quello che ho sentito dire da quel tizio. Ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh? Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi saperlo, un’idea precisa non ce l’ho mica”. Io mi sono concentrato sull’inquadratura della cattedrale sullo schermo. Come si fa a descriverla, anche a grandi linee? 
   Ma supponiamo che ne andasse della mia vita. Diciamo che un pazzo mi minacciasse, dicendo che dovevo farlo, altrimenti… Ho fissato ancora un po’ la cattedrale prima che l’inquadratura passasse di nuovo al paesaggio circostante. Ma era inutile. Mi sono rivolto al cieco e gli ho detto: “Tanto per cominciare, sono altissime”. Mi sono guardato intorno nella stanza in cerca d’aiuto. “Svettano nel cielo. Sempre più su. Puntate dritte al cielo. Alcune sono così grandi che devono avere questa specie di puntelli. Per sostenerle in aria, per così dire. Questi puntelli si chiamano archi rampanti. Per qualche motivo, mi fanno venire in mente dei viadotti. Ma magari tu non sai nemmeno che cosa sono i viadotti, eh? A volte le cattedrali hanno diavoli e roba del genere scolpiti all’esterno sulla facciata. Altre volte, dame e cavalieri. Non mi chiedere come mai”, ho detto.
   Lui annuiva. Tutta la parte superiore del corpo sembrava oscillare avanti e indietro. “Non me la sto cavando tanto bene, vero?”, gli ho chiesto. Lui ha smesso di annuire e si è chinato in avanti, sul bordo del divano. Mentre mi ascoltava, continuava a passarsi le dita in mezzo alla barba. Mi rendevo conto che non glielo stavo spiegando tanto bene. Però voleva che andassi avanti lo stesso. Mi sono sforzato di pensare a cos’altro dire. “Sono davvero grandi”, ho aggiunto. “Massicce. Sono fatte di pietra. A volte di marmo. Ai vecchi tempi, quando costruivano le cattedrali, gli uomini volevano essere vicini a Dio. Ai vecchi tempi, Dio era una parte importante della vita di ognuno. Lo si capisce da tutte le cattedrali che costruivano. Scusa”, gli ho detto poi, “ma mi sa tanto che questo è il massimo che posso fare per te. È che non ne sono proprio capace”.
   “Non ti preoccupare, fratello”, ha detto il cieco. “Ehi, sta’ a sentire. Spero che non ti dispiaccia quello che sto per chiederti. Posso chiederti una cosa? È una domanda semplice, sì o no. Sono solo curioso, senza offesa. Sono ospite a casa tua. Ma permettimi di chiederti: sei in qualche modo religioso? Ti dispiace se te lo chiedo?”
   Ho scrollato la testa. Ma lui non poteva mica vederlo. Se annuisci o gli fai l’occhietto, per un cieco è la stessa identica cosa. “Mi sa tanto che non ci credo mica. In niente. A volte è dura, sai. Capisci cosa voglio dire?” “Certo”, ha detto lui. “Appunto”, ho detto io. L’inglese continuava ad andare avanti imperterrito. Mia moglie ha sospirato nel sonno. Ha tirato un lungo respiro e ha continuato a dormire.
   “Mi dovrai scusare”, gli ho detto. “Ma non ci riesco proprio a spiegarti com’è fatta una cattedrale. Non ne sono proprio capace. Non posso fare meglio di così”. Il cieco è rimasto seduto immobile e mi ascoltava con la testa abbassata. Ho detto: “Il fatto è che le cattedrali non è che significhino niente di speciale per me. Niente. Le cattedrali. Sono solo cose da vedere in tv la sera tardi. Tutto lì”.
   È stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola. Gli è venuto su qualcosa. Ha tirato fuori un fazzoletto dalla tasca di dietro. Poi ha detto: “Ho capito, fratello. Non è un problema. Capita. Non stare a preoccupartene troppo”, così ha detto. “Ehi, sta’ a sentire. Me lo fai un favore? Mi è venuta un’idea. Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Prendi una penna e un pezzo di carta pesante. Coraggio, fratello, trovali e portali qua”, ha detto.
   E così sono salito di sopra. Mi pareva di non avere più un briciolo di forza nelle gambe. Me le sentivo come dopo aver fatto una corsa. Ho rovistato un po’ nello studio di mia moglie. Ho trovato delle penne a sfera in un cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di pensare a dove potevo trovare il tipo di carta che mi aveva chiesto. Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo.


   L’ho svuotata scuotendola per bene. L’ho portata di là in soggiorno e mi sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un po’ di roba, ho allisciato la busta e l’ho stesa sul tavolino. Il cieco si è tirato giù dal divano e si è seduto accanto a me sul tappeto. Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli.
   “Perfetto”, ha detto. “Perfetto, facciamola”. Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. “Coraggio, fratello, disegna”, ha detto. “Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene. Comincia subito a fare come ti dico. Vedrai. Disegna”, ha detto il cieco. E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo.


   Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti. “Benone”, ha detto lui. “Magnifico. Vai benissimo”, ha detto. “Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, fratello? Be’, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere”.
   Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. I programmi della televisione erano finiti. Ho posato la penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. La sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a tutto quello che avevo disegnato, e annuiva. “Vai forte”, ha detto infine. Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso.
   Mia moglie ha aperto gli occhi e ci ha fissato. Si è tirata a sedere sul divano, con la vestaglia tutta aperta. Ha detto: “Che cosa state facendo? Ditemelo, voglio sapere”. Non le ho risposto. Il cieco ha detto: “Stiamo disegnando una cattedrale. Ci stiamo lavorando insieme, io e lui. Premi più forte”, ha detto, rivolto a me.
   “Sì, così. Così va bene”, ha aggiunto. “Certo. Ce l’hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte. Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro. Come va il braccio?”, ha chiesto. “Ora mettici un po’ di gente. Che cattedrale è senza la gente?” Mia moglie ha chiesto: “Ma che succede? Robert, che cosa stai facendo? Si può sapere che succede?”
   “Tutto a posto”, le ha detto lui. “E adesso chiudi gli occhi”, ha aggiunto, rivolto a me. L’ho fatto. Li ho chiusi proprio come m’ha detto lui. “Li hai chiusi?”, ha chiesto. “Non imbrogliare”. “Li ho chiusi”, ho risposto io. “Tienili così”, ha detto. Poi ha aggiunto: “Adesso non fermarti. Continua a disegnare”. E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia. Poi lui ha detto: “Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta”, ha detto. “Da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare?”
   Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po’. Mi pareva una cosa che dovevo fare. “Allora?”, ha chiesto. “La stai guardando?” Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente. “È proprio fantastica”, ho detto. (Raymond Carver)

mercoledì 17 dicembre 2014

Qualche appunto da "Come diventare se stessi - David Foster Wallace si racconta"

All’indomani dell’uscita americana di Infinite Jest, inviato dalla rivista Rolling Stone a scrivere un lungo articolo su Wallace, il giornalista David Lipsky trascorse cinque giorni ininterrotti al suo fianco, viaggiando con lui per centinaia di chilometri, assistendo ai suoi reading, alle lezioni del suo corso di scrittura, ma soprattutto impegnandolo in una conversazione personale e profonda sulla letteratura, la politica, il cinema, la musica, e anche gli aspetti più privati della sua vita, compresi il rapporto con le droghe e la battaglia contro la depressione. Questa è la fedele trascrizione del materiale registrato all’epoca: il ritratto in presa diretta di un indimenticato maestro della letteratura. 







Qualche appunto:


SCOPO DELLA LETTERATURA
Ma secondo me in parte c’è anche il fatto che certe cose influenzano il tipo di esperienze interiori che uno vive. E i sentimenti di cui la letteratura deve parlare. Cioè, una persona di oggi passa molto più tempo di fronte a un monitor. In stanze illuminate dai neon, nei cubicoli degli uffici, a un capo o all’altro di un trasferimento di dati. E cosa significa essere umani, e vivi, ed esercitare la propria umanità in questo genere di scambio? Rispetto a cinquant’anni fa, quando il grosso dell’esperienza  di una persona era, che ne so, avere una casa, un giardino, e farsi quindici chilometri in macchina ogni giorno per andare a lavorare in fabbrica. E vivere e morire nella stessa città in cui nasceva, e sapere com’erano fatte le altre città solo dalle fotografie e da un cinegiornale di tanto in tanto. […] Il trucco che dovrà fare la letteratura, per come la vedo io, sarà cercare di creare una ricchezza di dettagli e un linguaggio in grado di mostrare… sarà cercare di creare una mimesi efficace quanto basta per mostrare che in realtà non è cambiato nulla. Che ciò che è sempre stato importante è ancora importante. E il nostro compito è capire come fare questa cosa in un mondo la cui consistenza sensoriale è completamente diversa.

SCOPO DELLA LETTERATURA

Ci sono cose che la grande letteratura può fare e che altre forme d’arte non riescono a fare così bene.
E la principale… la principale mi sembra che sia il fatto di poter saltare al di là del muro dell’identità individuale e descrivere la propria esperienza interiore; e provocare, direi, una sorta di conversazione intima fra due coscienze.

CULTURA POP E ARTE

Perché la prevedibilità della cultura popolare, la roba veramente stereotipata, quella che non fa nessun tentativo di sorprendere o di creare qualcosa di artistico, ha un effetto profondamente confortante. E perfino lo spettatore più ottuso o più stanco riesce a capire cosa sta per succedere. Il che ti dà un senso di ordine, l’impressione che finirà tutto bene, che questa è una narrazione che si prenderà cura di te, e non ti metterà alla prova in nessun modo. E’ come essere avvolti in una coperta di pelle di camoscio e rannicchiati accanto a una grossa tetta generosa, no? E d’accordo non saranno grandi capolavori. Ma la funzione che hanno è profonda, in un certo senso.
Tutta questa roba è, come dire, mortalmente seria e davvero profonda, sempre. Cioè, non significa che si debba andare in giro a fare gli eruditi della cultura pop, scomponendola e analizzandola. Ma il fatto è che… troviamo… che l’arte trova un modo di prendersi cura di noi, e di prendere parte alla nostra vita. Quasi malgradose stessa.
[…] Perché in fondo la roba fica, la magia, viene fuori continuamente. Il trucco, sai… se c’è una cosa che la vera arte può fare, è di metterti in condizione di essere più pronto ad ascoltarla. Mi spiego? Seducendoti, riesce a farti prestare attenzione a certe cose in un modo in cui è difficile prestare attenzione.

SCRITTORI

Non credo che siamo meglio degli altri, però siamo in grado di descrivere il tentativo di ripercorrere il nostro girare a vuoto in modo tale che forse qualcun altro riuscirà ad identificarsi. Non credo che gli scrittori siano più intelligenti delle altre persone. Penso solo che possono essere più interessanti nella loro stupidità, o nella loroconfusione.

TELEVISIONE E LETTERATURA

Noi ce ne stiamo qui a lagnarci di come la tv ha rovinato il pubblico dei lettori, quando in realtà la sua unica colpa è di averci fatto il preziosissimo dono di renderci il lavoro più difficile. Capisci in che senso? Per come la vedo io, più è difficile far sentire a un lettore che vale la pena leggere quello che scrivi, più è probabile che tu stia producendo v era arte. […]
Si insegna al lettore che è molto più intelligente di quanto credeva di essere. Secondo me una delle lezioni più insidiose che impartisce la TV è la meta-lezione che tu sia stupido. Che questo è il massimo a cui puoi arrivare.

LETTERATURA SPERIMENTALE

C’è della letteratura sperimentale che fa veramente, ma veramente cacare, che ha una leziosità e una difficoltà fini a se stesse. […] Un po’ come se uno guarda la storia della pittura dopo lo sviluppo della fotografia – la storia della letteratura rappresenta il costante sforzo di permettere alla letteratura di continuare a operare quelle magie che ti dicevo. Mano mano che il tessuto cognitivo della nostra vita cambia. E mano mano che cambiano i media attraverso cui la nostra vita viene rappresentata. E sono le cose avanguardistiche o sperimentali che hanno la possibilità di portare avanti questa impresa. Ecco perché sono preziose.
E il motivo per cui mi fa rabbia che tanto spesso facciano cacare, e che ignorino il lettore, è proprio che le ritengo tanto, tanto, tanto preziose. Perché sono quelle che parlano di che effetto fa stare al mondo. Invece di offrire un sollievo dall’effetto che fa stare al mondo.


CLASSICI DELLA LETTERATURA E SCOPO DELLA LETTURA

E non so come la vedi tu, ma per quanto mi riguarda quel tipo di letteratura mi piace leggerla, ma non mi sembra per niente vera. La leggo per trovare sollievo da ciò che è vero. La leggo per trovare sollievo dal fatto che, per dire, oggi ho ricevuto cinquecentomila informazioni distinte, delle quali forse venticinque sono importanti. E come faccio a distinguere quali?

LETTERATURA SPERIMENTALE

Non potrei dire che [la letteratura sperimentale] è scritta male: ma richiede al lettore una quantità di fatica che è ridicolmente sproporzionata rispetto alla soddisfazione che ne trae. […] Come lettore mi sento un bambino in mezzo a degli adulti che fanno un discorso  di cui non  capisco assolutamente nulla: perché quello di fatto è un libro scritto per altri scrittori, per teorici e critici. E tutta quella magia viscerale, della serie “Cristo Santo, che bello leggere. Ora com ora preferirei leggere piuttosto che mangiare” è andata completamente perduta.